Recensione "A testa alta", di Bianca Stancanelli

Buon pomeriggio cari lettori, oggi vogliamo raccontarvi una storia. La storia di un uomo straordinario, un eroe dei nostri giorni che oggi, in una tiepida serata di fine estate di esattamente venticinque anni fa, veniva freddato con uno sparo alla nuca sul portone di casa. Quell’uomo era padre Pino Puglisi e il motivo della sua uccisione era chiaro, inequivocabile: quell’ometto allegro e spensierato, sempre sorridente e cortese con tutti, si era messo in testa di poter sconfiggere la mafia.

Padre Pino Puglisi è un sacerdote palermitano che ha nella Chiesa una posizione consolidata (se lo volesse potrebbe vantare diversi incarichi di grande prestigio). Nel 1990 il cardinale Pappalardo lo nomina come parroco di Brancaccio, uno dei quartieri peggiori di Palermo, teatro di povertà, desolazione e criminalità organizzata. Padre Puglisi conosce bene la zona in cui lo stanno mandando, eppure accetta l’incarico senza indugi o ripensamenti. E una volta insediatosi nel quartiere stabilisce che quel posto può e deve cambiare, che deve diventare un luogo civile e vivibile, che va sottratto con ogni mezzo al giogo della mafia.

Cominciò bussando a tutte le porte. “Bisogna prima conoscere, poi capire, infine agire” diceva. In un quartiere murato dalla paura, sigillato dal silenzio, chiedeva alla gente di aprirsi, di raccontare di sé. Non tutte le porte si aprirono, alcune si spalancarono sull’inferno: vite miserabili, fame, malattie tenute segrete, invalidità nascoste. Famiglie intere ridotte a vivere in un’unica stanza. Handicappati legati ai letti, malati di mente segregati. Bambine precocemente invecchiate, grottescamente travestite da donne, prostituite. Vecchi abbandonati. E fuori, un quartiere dove tutto manca, dall’illuminazione pubblica all’asilo, dal pronto soccorso alla scuola media. Tutto. È un quadro disperante. Potrebbe convincere tanti alla resa. Non padre Puglisi. Ha troppa passione, troppa fede, troppo amore per gli ultimi. E sa che l’unica battaglia perduta è quella che si rinuncia a combattere.

Padre Puglisi è un uomo disarmato: non possiede manette, né codici, non ha dalla sua processi o inchieste giornalistiche. Eppure il suo operato infastidisce subito la mafia. Perché il sacerdote punta tutto sui bambini, vuole sottrarli alla criminalità, insegnare loro regole e principi, vuole spiegargli che c’è molto più onore nel vivere onestamente che nello schierarsi con un branco di assassini.

C’è dunque una contesa, inespressa ma furibonda, tra parroco e mafiosi sull’anima dei bambini. Brancaccio è terra di reclutamento, vivaio, serra, nella quale Cosa Nostra seleziona e alleva le nuove generazioni. Da lì, per tradizione, vengono i killer più abili dell’organizzazione. Una crisi di consenso tra i bambini, i ragazzi, è una ferita impensabile, inaccettabile.

Don Pino è un sacerdote rivoluzionario: ascolta davvero le persone, se necessario per ore, cerca di capirle, di mettersi nei loro panni e di fornire un aiuto concreto per contrastare la lotta alla fame e agli stenti che per moltissimi abitanti di Brancaccio rappresentano una sfida quotidiana. Ma soprattutto invita la gente a ribellarsi, a non avere paura, a non chinare più la testa. Cosa Nostra per resistere ha bisogno della paura e del consenso: sull’una e sull’altro agisce il parroco di San Gaetano.

Don Puglisi fonda insieme ad altri tre cittadini onesti del quartiere il Comitato Intercondominiale che avanza numerose proposte nei confronti delle istituzioni per rendere Brancaccio un quartiere civile (una scuola media, un pronto soccorso, un ospizio, una palestra per bambini e ragazzi sono alcune delle strutture per le quali si batte).
Il Comitato vince tante battaglie, ne perde molte di più, ma pochi mesi dopo la sua costituzione la mafia torna a reclamare ciò che considera di suo esclusivo dominio. Nella notte di martedì 29 giugno le porte di casa dei tre laici che affiancano Padre Puglisi nella guida del Comitato vengono cosparse di benzina e bruciate contemporaneamente. I tre se ne accorgono in tempo e riescono ad estinguere l’incendio ma il messaggio insito in questa azione coordinata è chiarissimo: dagli avvertimenti si è passati ai fatti.

La domenica successiva, il 4 luglio, padre Puglisi dedica l’intera omelia all’attentato. È un discorso a braccio. Chiunque lo abbia ascoltato è rimasto colpito dal crescendo dei toni, dal coraggio della sfida. E ha avuto paura: paura per quel parroco troppo esposto, per quelle parole troppo chiare nella terra dei sussurri.“Vorrei capire”, dice, “quali sono i motivi che vi spingono a ostacolare chi sta lavorando per realizzare a Brancaccio una scuola media, un distretto sociosanitario, una società migliore per tutti i vostri figli.Nel discorso il sacerdote s’infervora, il viso gli si arrossa, le orecchie fiammeggiano. “Parliamone, discutiamone, vediamoci in piazza. Chi usa la violenza non è un uomo, chi si macchia di simili delitti somiglia alle bestie, chi usa questi mezzi per fare paura alla gente, è un animale.”

Nei giorni che precedono il suo assassinio, padre Puglisi cerca di rimanere solo il più possibile. Il suo cuore è dominato da un oscuro presagio e non vuole che nessun innocente rischi la vita a causa sua. Si è esposto troppo contro la mafia affinché quella gente possa lasciarlo stare. Ma pur prevedendo, presagendo una tragica fine, non scappa, non si rifugia, non chiede di essere protetto o trasferito. Come un martire che sa di aver combattuto per una giusta causa, si consegna ai suoi assassini.

È la sera del 15 settembre 1993, sono quasi le 22 e padre Puglisi sta rientrando a casa. Arrivano in quattro alle sue spalle, uno di loro mente dicendo “questa è una rapina”. Padre Puglisi risponde “me lo aspettavo” e sorride. Subito dopo una pallottola calibro 7,65 trapassa da parte a parte il suo cranio. Compiuto l’omicidio i quattro scappano, come i più vili tra gli uomini.

Il 20 ottobre del 1998, in un’udienza del processo, il pubblico ministero domanda a Salvatore Grigoli: <Lei ha ammazzato don Pino Puglisi?>La risposta è secca: <Sì, ho sparato a Padre Puglisi.>Domanda il pm: <Perché lo ha ammazzato?>Risponde l’assassino: <Perché mi è stato ordinato.>È difficile che l’abbia potuto dire a testa alta.

Prima di concludere, cari lettori, ci teniamo a precisare che i passi contenuti in questo articolo sono tratti dal libro “A testa alta” di Bianca Stancanelli, un saggio bellissimo e scritto magistralmente edito da Einaudi. Se siete intenzionati ad approfondire la figura eroica di Pino Puglisi, vi consigliamo di non perdervelo. Grazia a tutti coloro che sono arrivati fin qui e alla prossima!

                 


Commenti

  1. È davvero uno dei migliori libri che abbia letto.. Complimenti Bianca

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