Recensione “La fattoria degli animali”

Il celebre creatore del mondo distopico di 1984 è ricordato per il suo tocco critico presente già in molti romanzi precedenti, tra cui “La fattoria degli animali”, scritto nel 1945, in cui l’apparenza della semplice favola rivela il tentativo di Orwell di unire una trama originale con uno stile limpido e acuto.
Nel romanzo allegorico, gli animali sono i protagonisti, ma pensano e agiscono come esseri umani: ormai stanchi dei soprusi a cui sono sottoposti all’interno della fattoria, decidono di ribellarsi agli umani e instaurare un nuovo ordine politico basato sull’uguaglianza. Ma, stando a quanto affermano i leader del nuovo governo, i maiali, “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali di altri”, il concetto di uguaglianza, tanto esaltato in nome di chissà quali valori, diventa relativo e opinabile. La realtà è infatti ben diversa: gli animali non si dimostrano in grado di differenziarsi dall’uomo in cupidigia e prepotenza, anzi, il loro piccolo mondo all’interno della fattoria si trasforma in un regime dittatoriale, in cui i maiali si impongono su quelli meno intelligenti e furbi di loro.
La terribile somiglianza che ci associa agli animali fa aprire gli occhi: quella di Orwell vuole essere un’acuta riflessione sulle conseguenze del potere in mani sbagliate e una critica contro il totalitarismo, ma in fondo non potrebbe essere anche un aspro commento sull’animo umano? Il romanzo lascia l’amaro in bocca, una dura consapevolezza nei confronti di quei comportamenti che conosciamo fin troppo bene e che non ci rendono troppo distanti dall’istinto animale:
“Non c’era più alcun dubbio su ciò che era successo alla faccia dei maiali. Dall’esterno le creature volgevano lo sguardo dal maiale all’uomo, e dall’uomo al maiale, e ancora dal maiale all’uomo: ma era già impossibile distinguere l’uno dall’altro.”
Ultimo ma non meno importante, volevo dedicare un breve spazio al saggio “La libertà di stampa”, breve inserto che l’autore desiderava presentare come sorta di prologo al romanzo, ma che poi non vene inserito e pubblicato solo nel 1972. Nel saggio, Orwell spiega le sue difficoltà nella pubblicazione, in quanto molti editori avevano ritrovato nel romanzo espliciti riferimenti al regime sovietico di Stalin. L’idea dell’autore riguardo il concetto di censura è, secondo il mio parere, moderna e originalissima: si parla infatti non tanto di privazione di libertà attraverso veti ufficiali, quanto piuttosto di un vero e proprio fenomeno di massa che si orienta implicitamente verso cosa sia giusto dire e cosa no, in una generale “vigliaccheria intellettuale”. La libertà, se significa qualcosa, significa “il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentirsi dire”, con queste parole Orwell conclude il suo discorso, in una definizione così pulita e esatta che, forse proprio per questo, disorienta e sconcerta.

Valeria Todaro

                                

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